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Perche SI’

Le ragioni della Riforma Costituzionale

Sono spiegate in AA. VV (2016):

1) Porta a compimento alcuni delle proposte avanzate in precedenti tentativi falliti di riforma costituzionale (Carlo Fusaro, Università di Firenze);

2) Pone fine al bicameralismo perfetto introducendo il Senato delle autonomie (Cesare Pinelli, La Sapienza).

3) Semplifica il procedimento amministrativo (Roberto Bin, Università di Ferrara);

4) Riduce il ricorso ai decreti legge e alla fiducia (Vincenzo Lippolis, Università degli Studi Internazionali di Roma);

5) Razionalizza il riparto delle competenze tra stato e regioni, ricentralizzando alcune competenze (energia, infrastrutture strategiche, reti di trasporto d’interesse nazionale, porti e aeroporti di interesse nazionale, commercio con l’estero, ordinamento sportivo, ordinamento scolastico), ma ridefinendo le competenze esclusive delle Regioni su un più specifico e dettagliato elenco di materie (Giulio M. Salerno, Università di Macerata); rimarrebbero comunque alle regioni anche tutte le materie non specificamente attribuite;

6) Elimina le province (Andrea Morrone, Università di Bologna);

7) Potenzia gli strumenti di partecipazione popolare, introducendo il referendum propositivo (Tommaso Edoardo Frosini, Università Suor Orsola Benincasa di Napoli);

8) Rafforza le garanzie costituzionali (Tania Groppi, Università di Siena; Marilisa D’Amico, Università Statale di Milano);

Vi sono quindi delle conseguenze importanti della Riforma:

9) istituzioni più efficienti e meno sprechi (Francesco Clementi, Università di Perugia e LUISS);

10) istituzioni più stabili (Lorenza Violini, Università Statale di Milano);

11) istituzioni più responsabili, rendendo di più riconoscibili chi presenta le leggi e di chi le approva (Roberto Bin);

12) Semplificazione della vita dei cittadini e delle imprese (Beniamino Caravita, La Sapienza);

13) Miglioramento della democrazia (Salvatore Vassallo, Università di Bologna).

Massimo Rubecchi (Università di Urbino) ricorda inoltre che la Riforma è stata approvata in Parlamento anche da alcuni che oggi si pronunciano per il No.

La legge di riforma costituzionale, che è stata approvata seguendo le speciali procedure stabilite dalla Costituzione, non riguarda invece la legge elettorale, che in base alla Costituzione è determinata con legge ordinaria (Peppino Calderisi, ex deputato).

I punti da 1 a 8 sono la base fattuale del contendere referendario: si può essere a favore o contro il bicameralismo perfetto, a favore o contro un maggiore decentramento regionale. Se la base fattuale è vera ne possono derivare le conseguenze descritte nei punti 9-13. Le conseguenze della riforma sono più importanti per decidere per chi non ha preferenze a priori sui punti 1-8. Purtroppo non è chiara la teoria che lega i punti 1-8 ai punti 9-12, e pochi gli esempi concreti e i numeri riportati nel libro. Approfondirò qui il tema del bicameralismo e del ruolo del nuovo Senato per poi illustrare una teoria che può aiutarci a capire gli effetti della Riforma Costituzionale. Concluderò cercando di dimostrare, sulla base di questa teoria, che la Riforma, riducendo il numero dei detentori di diritti di veto, va nella direzione giusta. Essa inoltre ridurrebbe i costi della politica.

Bicameralismo e Senato

Sulla rivista Il Mulino, Luigi Gianniti (consigliere parlamentare e LUISS) ricorda che la questione del bicameralismo fu tra le più dibattute e controverse nei lavori della Costituente. I partiti di sinistra sostenevano il monocameralismo. I partiti di destra volevano un bicameralismo differenziato. Il risultato fu il bicameralismo quasi perfetto. Una differenza marcata tra le due Camere, la durata (cinque anni per la Camera, sette per il Senato) fu annullata con due scioglimenti anticipati del Senato e poi con una riforma costituzionale nel 1963. Le differenze rimaste sono la maggiore anzianità per l’eleggibilità (40 anni) e per l’esercizio del diritto di voto e il prevalere della rappresentanza territoriale rispetto al proporzionalismo per il Senato. Nonostante ciò, nell’attuale assetto non esiste nessun collegamento stabile e istituzionale tra ordinamento regionale e Senato. Con la fine del proporzionalismo che aveva caratterizzato la prima repubblica (1948-1992) e le successive riforme elettorali, è esplosa la crisi del bicameralismo quasi perfetto con la possibilità che si formino maggioranze diverse o addirittura contrapposte in un assetto istituzionale che, a differenza di quelli presidenziali americano e francese (dove la “coabitazione” di maggioranze diverse è diventata la normalità), rimane centrato sul parlamento.

Il nuovo Senato sarebbe composto da 74 consiglieri regionali e 21 sindaci (eletti in corrispondenza con le elezioni regionali e rinnovabili in caso di decadenza dal loro ruolo) e cinque personalità nominate dal Presidente della Repubblica (non a vita, come è ora, ma per sette anni, come la durata del mandato presidenziale), più ovviamente gli ex Presidenti della Repubblica (Napolitano e i futuri) e gli attuali senatori a vita (Elena Cattaneo, Renzo Piano, Carlo Rubbia e Mario Monti).[1] Il voto favorevole del Senato sarebbe necessario solo per quelle leggi che riguardano il sistema costituzionale e l’ordinamento degli enti territoriali. Su tutte le altre leggi il Senato potrà proporre delle modifiche, ma solo sulle leggi di bilancio l’esame del Senato sarebbe obbligatorio. In ogni caso il parere del Senato non sarebbe vincolante e la Camera avrebbe l’ultima parola. Circa il 90% delle leggi, in base all’esperienza passata, ricadrebbero in questa categoria.[2] Il mandato elettorale dei senatori sarebbe differenziato coincidendo con l’organo territoriale che li ha eletti. Le coalizioni regionali sono diverse (il PD in alcune regioni governa in coalizioni con in centristi, in altre con l’estrema sinistra, così come Forza Italia governa in alcune regioni con i centristi in altre con la Lega Nord), pertanto i senatori seguirebbero l’orientamento della regione piuttosto che del partito cui appartengono, come succede nel Parlamento Europeo.[3]

La teoria: poteri di veto

Per capire quali potrebbero essere le conseguenze della riforma costituzionale serve una teoria che spieghi la relazione tra assetto istituzionale e politico e funzionamento delle scelte collettive. Questa teoria ci è fornita da Tsebelis (2002). Ogni assetto istituzionale è caratterizzato dal numero di attori che hanno poteri di veto sulle decisioni collettive e dalla loro distanza ideologica. Quanto più numerosi sono i detentori di poteri di veto e quanto maggiore la loro distanza ideologica, tanto maggiore sono la difficoltà ad intaccare lo status quo, l’instabilità dei governi e l’influenza degli interessi particolari (lobby), e tanto minore la responsabilità e l’efficienza delle istituzioni. In presenza di un numero elevato di diritti di veto è più difficile che il governo possa introdurre leggi di riforma significative e la legislazione tende ad essere perciò incrementale, ossia a introdurre modifiche marginali all’assetto esistente, senza intaccare lo status quo. È dunque più difficile ridurre la spesa pubblica improduttiva e iniqua, riformare radicalmente il sistema fiscale, ridurre il debito pubblico. È più difficile eliminare quei privilegi che garantiscono rendite a scapito del benessere collettivo, facilitare quelle innovazioni necessarie per competere in un mondo globalizzato non solo dalla dagli accordi di libero scambio ma soprattutto dalla tecnologia.

Poiché lo status quo è frutto di situazioni passate, la sua modifica può divenire necessaria per adeguare la legislazione a situazioni mutate. I sistemi politici caratterizzati da diffusi poteri di veto ostacolano la modernizzazione delle istituzioni, impoveriscono la democrazia e frenano la crescita economica.

L’instabilità governativa e il mantenimento dello status quo prodotto dalla numerosità dei diritti di veto produce anche due effetti collaterali: l’elevata discrezionalità e politicizzazione della magistratura e della burocrazia nell’implementazioni delle leggi. Infatti, i poteri di veto impediscono che il legislativo prevalga sulla magistratura e sulla burocrazia nell’interpretazione della legge. Magistratura e burocrazia tendono a supplire ai vuoti lasciati dalla politica.

Con la diffusione dei poteri di veto sfuma la separazione dei poteri: l’inefficacia del potere legislativo bloccato dai poteri di veto spinge l’esecutivo ad assumere poteri legislativi e lascia spazio al ruolo di supplenza della burocrazia e della magistratura.

I poteri di veto in Italia

I detentori dei poteri di veto sono stabiliti dall’assetto istituzionale e politico. La Costituzione Italiana identifica tre poteri di veto istituzionali: la Camera, il Senato e la Corte Costituzionale[4]. Poiché il nostro è un sistema multipartitico, all’interno del Parlamento sono però possibili varie maggioranze, sicché i partiti che formano la maggioranza governativa godono ognuno di potere di veto. Data l’elevata numerosità dei parlamentari, anche le correnti dei partiti maggiori hanno di fatto assunto poteri di veto. La Chiesa Cattolica, per vicinanza e tradizione, ha esercitato a lungo un potere di veto su determinate materie, così come il potere di veto informale lo hanno esercitato gli Stati Uniti, il paese guida dell’Alleanza politica e militare cui Italia ha aderito nel secondo dopoguerra. Dal 1970 sono diventate operative le Regioni, previste dalla Costituzione: esse esercitano un potere di veto informale su determinate materie attraverso un organo non istituzionale, la Conferenza Stato-Regioni. Dal 1974, anche l’elettore mediano (colui che decide chi ha la maggioranza tra due opposti schieramenti) ha potere di veto attraverso l’istituto del Referendum abrogativo, anch’esso previsto in Costituzione ma attuato solo 26 anni dopo. Su alcune tematiche (diritto del lavoro, pensioni ecc.), dall’inizio degli anni settanta hanno esercitato un potere di veto informale anche le maggiori Confederazioni Sindacali a seguito del rafforzamento della loro rappresentatività e della loro influenza politica. Tale potere è ridotto dalla fine degli anni settanta/inizio anni ottanti, ma ha continuato a condizionare le scelte legislative al di fuori della rappresentanza parlamentare.

La presenza di ampi e crescenti poteri di veto nella Prima Repubblica è stata un vincolo alle scelte collettive, ma anche una garanzia di democrazia, nella misura in cui ha permesso al maggiore partito di opposizione, escluso dal veto degli USA dalla possibilità di partecipare al governo, il Partito Comunista Italiano, di aver comunque voce in capitolo sulla produzione legislativa e sulle nomine istituzionali.

Con la caduta del muro di Berlino (1990) e la fine della guerra fredda tra Alleanza occidentale e blocco comunista, alcuni poteri di veto sono caduti (Chiesa, USA, Sindacato) e la distanza ideologica tra i partiti si è ridotta. Tuttavia, questi attori hanno cercato di mantenere una certa influenza extraparlamentare sulla legislazione italiana e le contrapposizioni tra i partiti, non più ideologiche ma settarie e personalizzate, sono rimaste aspre. Anche a seguito del passaggio da un sistema elettorale proporzionale a varie sistemi elettori maggioritari, è aumentata la stabilità dei governi, la cui durata è passata dai 300 giorni della Prima Repubblica (1948-1992) ai 578 della Seconda Repubblica. Essa rimane tuttavia inferiore a quella di maggiori paesi europei. Allo stesso tempo, però, alcuni poteri nazionali (in primo luogo la politica monetaria e quella del tasso di cambio) sono stati trasferiti alle istituzioni europee, mentre sono aumentati i diritti di veto della Commissione e del Consiglio Europeo. Nel complesso quindi i poteri di veto sono rimasti numerosi, il governo è divenuto più stabile ma nel complesso le istituzioni sono rimaste inefficaci, tanto da rimanere inerti di fronte al declino economico del Paese.

Parlamento inefficace

Il tempo di approvazione delle leggi in Italia non è più lento rispetto a Spagna e Francia (Tortuga 2016). Tuttavia, i giorni medi di approvazione di una legge (247 giorni) sono una media tra i tempi molti lunghi per le iniziative di legge parlamentare (504 giorni) e i tempi ben più rapidi per quelli di iniziativa governativa (180 giorni). Il nostro bicameralismo quasi perfetto non sembra rallentare tutte le leggi, ma delle leggi nate in Parlamento. Tra le leggi “lumaca” ci sono stati molti argomenti importanti, tra cui la legge sulla frode penale, la protezione dell’ambiente, l’assistenza a favore delle persone con disabilità, il trattato di assistenza giudiziaria tra gli stati dell’Unione Europea, la lotta agli sprechi, il reato di omicidio stradale, la valorizzazione della biodiversità agricola. Al contrario, le leggi “lepre” sono decreti, ratifiche di trattati internazionali o leggi governative su cui viene posta la fiducia (il ricatto che se la legge non viene approvata il governo si dimette). Sia i decreti legislativi che la fiducia sono strumenti che dovrebbero essere usati in casi straordinari, invece sono comunemente utilizzati per una rapida approvazione delle leggi promosse dal governo. Una distorsione del sistema italiano che nella riforma viene affrontata escludendo il ricorso ai decreti legge su alcune materie. Con l’attuale sistema bicamerale, le navette[5], i decreti e la fiducia, il potere di legiferare in tempi ragionevole è di fato delegato al governo. Un’anomalia costituzionale che ci consegna un Parlamento poco trasparente ed efficace, spesso ridotto a mero ratificatore. Risulta quindi paradossale la retorica “giacobina” dei sostenitori del no, secondo cui il sistema attuale garantisce al Parlamento un buon controllo sul governo e un ruolo primario come legislatore.

Istituzioni irresponsabili

Carlo Cottarelli (2015), il primo commissario straordinario per la spesa da ottobre 2013 a novembre 2014 scrivono entrambi sulla spesa pubblica, scrive: “Spesso non è chiaro chi prende certe decisioni nei dettagli”. Il governo o il Parlamento? Nell’irresponsabilità regnate, gli uffici legislativi dei ministeri fanno spesso errori nella stesura. Per porvi rimedio, il governo stesso propone emendamenti a decreti legge appena presentati dal governo stesso.

“Nel corso del mio lavoro come commissario, in diverse occasioni sono state approvate nuove iniziative di spesa, spesso di origine parlamentare, per le quali si prevedeva che il finanziamento sarebbe arrivato dall’attività di revisione della spesa” (Cottarelli, 2015).

Le mancette

Con “mancette” Cottarelli si riferisce a “quegli stanziamenti di risorse contenuti in leggi e leggine per importi modesti che vanno a beneficio di interessi locali, piccoli enti pubblici e privati, piccole iniziative. Il capitolo 9 del libro di Cottarelli ne contiene vari esempi, a cui rimando. Tali spese sono in parte congenite al sistema democratico, ma il sospetto che esse tendano ad aumentare quanto maggiori sono i poteri di veto è fondato.

Roberto Perotti (2016), consigliere economico del Presidente del Consiglio Matteo Renzi da settembre 2014 al dicembre 2015, scrive: politici e dirigenti dell’amministrazione “difendono acriticamente con le unghie e con i denti i programmi della propria sfera di influenza e i gruppi di interesse e le lobby a essi connessi, e se ne infischiano se le risorse necessarie per questi programmi potrebbero essere usate in modi molto più efficaci e per persone che ne hanno più bisogno”.

Il potere della burocrazia

I vertici della burocrazia italiana sono dominati da esperti di diritto amministrativo (Cottarelli 2015). Risultato: le leggi sono autoreferenziali e incomprensibili, e di fatto controllate dalla burocrazia ministeriale. Quanti tra i quasi mille parlamentari le capiscono? La discussione avviene pertanto di fatto tra pochi esperti, mentre la maggioranza dei parlamentari cerca di ottenere la propria “mancetta” o vota per disciplina di partito. È ovviamente una pacchia per i lobbisti, i quali devono soltanto trovare qualche parlamentare compiacente. Di sicuro un Parlamento pletorico, bicamerale e pertanto irresponsabile non è mai riuscito a imporre alla burocrazia trasparenza e semplificazione dei testi legislativi.

Inoltre le leggi, controllate dalla burocrazia ministeriale, contengono procedure di implementazione complicate che garantiscono che l’implementazione delle leggi dipenda dalla burocrazia stessa.

Sia Cottarelli che Perotti si sono dimessi, a testimonianza che l’attuale sistema istituzionale una razionalizzazione della spesa pubblica è impossibile.

La supplenza della magistratura

Piero Tony (2015), ex procuratore generale di Prato e membro di Magistratura Democratica, racconta come “una parte della magistratura, cedendo alla tentazione di trasformarsi in una forza politica, abbia esercitato sulla vita pubblica del nostro Paese una clamorosa e incomprensibile supplenza in servizio permanente effettivo”. La meccanica della supplenza ha le sue fondamenta nel periodo delle grandi emergenze: il terrorismo negli anni settanta, la mafia negli anni ottanta, tangentopoli (il diffuso sistema di corruzione dei politici) negli anni novanta. La politica (governi instabili e Parlamento irresponsabile) ha dapprima utilizzato i magistrati per strizzare l’occhio alla pubblica opinione (molti magistrati sono passati in politica e hanno assunto cariche pubbliche). In una seconda fase, parte della magistratura ha incominciato a muoversi come un attore politico e moralizzatore attraverso l’uso spregiudicato delle indagini preliminari e delle intercettazioni. La politica, debole e irresponsabile, ha allora aperto la strada alla supplenza dei magistrati affidando alla magistratura, per esempio, il compito di stabilire, anche retroattivamente, chi è candidabile e chi no alle elezioni, o lasciando alla magistratura il compito di punire, forzando le leggi esistenti, un reato mancante nel codice, quello di omicidio stradale, rimpallato cinque volte tra Camera e Senato e approvato dopo 986 giorni (Tortuga 2016)!

Le conseguenze della riforma

Il merito principale della Riforma costituzionale è che riduce i poteri di veto. Il Potere di veto del Senato sarebbe ridotto per il 90% delle leggi. Allo steso tempo il potere di veto delle Regioni verrebbe istituzionalizzato ma circoscritto. Inoltre, con la riduzione del numero di parlamentari, verrebbe ridotto il potere di veto delle correnti partitiche e delle lobby.

La riduzione del personale politico è solo dello 0,8%, ma tale riduzione avviene al vertice della piramide e consolida la riduzione del personale politico avviata con la trasformazione delle province in enti di secondo livello (cioè non eletti).

Oggi Dopo la Riforma
Deputati e Senatori 945 730 (di cui 95 consiglieri regionali e sindaci)
Consiglieri CNEL 64 0
Consiglieri regionali 1117 1117
Assessori provinciali (858) 0
Sindaci 8094 8094
Assessori comunali 35254 35254
TOTALE (senza assessori provinciali) 45474 45100

Fonte: http://www.nocensura.com/2010/12/ecco-quanti-sono-i-politici-italiani.html.

Minori poteri di veto possono rendere le istituzioni più efficienti e responsabili e i governi più stabili e ridurre la discrezionalità della burocrazia e della magistratura, ristabilendo una più chiara distinzione dei poteri: il governo, i parlamentari e gli elettori attraverso il referendum propositivo propongono le leggi; il Parlamento le discute, le approva o le respinge; la burocrazia e la magistratura le implementano. La Riforma migliora la democrazia e rende possibile una più efficace razionalizzazione della spesa pubblica.

I risparmi della riforma

Una riforma Costituzionale non si giudica dai risparmi di spesa che genera, ma una stima di questi può essere utile per capire in quale direzione si muove la Riforma. Roberto Perotti (2016) stima che i risparmi di spesa della Riforma siano di circa 130 milioni.[6] Saranno pochi confronto all’enormità della spesa pubblica italiana, ma chi sa cosa vuol dire “fare risparmi” concorderà che il “non tagliamo questa spesa perché tanto è piccola” non porta da nessuna parte.

Conclusioni

Il referendum del 4 dicembre rappresenta un’occasione storica per rimuovere alcuni ostacoli all’esercizio delle scelte collettive in Italia, migliorare la democrazia e modernizzare il Paese.

Sergio Lugaresi

Riferimenti

AA. VV., Perché Sì, Editori Laterza, 2016.

Cottarelli, Carlo, La lista della spesa, Feltrinelli, 2015

Gianniti, Luigi, “Diverso ma non troppo. Un nuovo Parlamento alla prova dei fatti”, Il Mulino, n. 4, 2016.

Perotti, Roberto, Status quo, Feltrinelli, 2016.

Tony, Piero, Io non posso tacere, Einaudi, 2015

Tortuga, “Vizi e virtù del bicameralismo”, La Voce (http://www.lavoce.info/archives/43595/vizi-e-virtu-del-bicameralismo-alla-prova-dei-fatti/).

Tsebelis, George, Veto Players. How Political Institutions Work, Princeton University Press, 2002 (trad. It. Poteri di veto. Come funzionano le istituzioni politiche, Il Mulino, 2004).


[1] http://blog.openpolis.it/la-composizione-del-senato-oggi-e-se-vince-il-si-speciale-referendum-n-5?utm_source=Newsletter&utm_medium=email&utm_term=MailUp&utm_content=MailUp&utm_campaign=Newsletter .

[2] http://blog.openpolis.it/2016/11/27/poteri-del-senato-la-riforma-speciale-referendum-n-6/10995 .

[3] http://blog.openpolis.it/2016/11/20/la-composizione-del-senato-oggi-vince-si-speciale-referendum-n-5/10993.

[4] La Corte Costituzionale, pur prevista dalla Costituzione del 1948, ha iniziato ad operare solo nel 1955.

[5] Nel gergo parlamentare il termine navette oppure navetta parlamentare, in un sistema bicamerale, indica il passaggio ripetuto di un progetto di legge (disegno di legge o proposta di legge) da una Camera all’altra prima dell’approvazione finale (https://it.wikipedia.org/wiki/Navetta_parlamentare ).

[6] http://www.lavoce.info/archives/44106/44106/.

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