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Reddito e produttività in Italia: prospettiva storica e rallentamento

Sergio Lugaresi

In memoria di Riccardo Faini

 

Introduzione

Da molti anni l’Italia cresce economicamente poco. Da quando? Quale è la dimensione del fenomeno? Quali sono le sue cause? Sono domande importanti per poter capire cosa fare, se qualcosa si può fare. Cerco qui di dare un po’ di ordine ad alcune statistiche e di riassumere alcuni studi.

Il PIL pro-capite è l’indicatore più noto del benessere economico[1]. La crescita del PIL pro-capite dipende dalla produttività dei fattori produttivi: lavoro, capitale, progresso tecnico. Vediamo come questi indicatori, se pur approssimativi, sono andati sia nel tempo sia in confronto ad altri paesi, soffermandoci in particolare sugli ultimi decenni.

La produttività del lavoro spiega quasi tutta la crescita del PIL pro-capite. La produttività oraria, è però oggi sensibilmente inferiore a quella di Francia e Germania. La creazione e l’assorbimento dell’innovazione tecnologica è stata il fattore trainante della crescita economica nei due periodi di maggiore sviluppo: gli anni Venti, ma soprattutto il secondo dopoguerra (1951-1973). Nella media degli ultimi centocinquant’anni, tuttavia, la creazione e l’assorbimento di innovazione tecnologica sarebbe stato inferiore a quello della Germania.

La crescita del PIL pro-capite è via via rallentata dalla metà degli anni 70 del secolo scorso, un fenomeno comune a tutti i maggiori paesi europei. Il gap di produttività tra imprese grandi e imprese piccole, così come tra più efficienti e inefficienti, è cresciuta nel tempo, particolarmente nei servizi, ed è più ampio in Italia che negli altri paesi europei.

Il rallentamento della crescita del PIL pro-capite è stato accompagnato dal rallentamento della crescita della produttività del lavoro e dell’assorbimento di innovazione tecnologica. Tuttavia, il numero di ore di lavoro per occupato in Italia è stato molto più alto che in Germania e Francia, mentre il tasso di occupazione è stato in Italia sistematicamente e significantemente inferiore a quello degli altri paesi. Quindi l’Italia si caratterizza, oltre che per una bassa produttività del lavoro, anche per un intensivo impegno lavorativo di una porzione di popolazione inferiore a quella di altri paesi.

Perché tale rallentamento? Gli studi qui ripresi propongono quattro spiegazioni, da cui derivano alcune indicazioni di policy che riprenderemo nelle conclusioni.

Una prospettiva storica

Il reddito reale pro-capite

Dalla metà dell’ottocento, quando le innovazioni scientifiche e tecnologiche imprimono una accelerazione mai vista prima nella crescita del reddito dei principali paesi europei e nordamericani, ad oggi, il reddito reale pro-capite[2] degli italiani è aumentato di circa tredici volte, più meno come negli Stati Uniti, in Francia e Germania, anche se meno che in Spagna, Irlanda e nei paesi scandinavi. In Italia, però, i progressi del reddito pro-capite sono concentrati nella seconda metà del Novecento (Brunetti-Felice-Vecchi 2011). La crescita è bassa nei primi vent’anni del Regno (1861-1896, 0,6% all’anno), decolla nel periodo giolittiano (1897-1931, 1,5%) e rimane elevata negli anni Venti (1919-1928, +1,4%), rallenta di nuovo durante la Grande Depressione (1929-1938, 0.5%) ed esplode durante il miracolo economico (1951-1973, +5,4%). Notevoli le disparità regionali (vedi Box: Le disparità regionali).


Box: Le disparità regionali

Al momento del completamento dell’unificazione nazionale (1871), l’Italia presenta disparità regionali non trascurabili: il Nord-Est, in termine di PIL pro-capite, ha un vantaggio di circa il 25% sul Mezzogiorno (Sud e Isole). Da allora si assiste ad uno spettacolare processo di divergenza: il Nord-Ovest diventa un mondo a parte all’indomani della Seconda guerra mondiale, con un PIL pro-capite nel 1951 superiore del 50% a quello della media italiana; il Mezzogiorno diventa un altro mondo a parte, con un PIL per abitante che è meno della metà di quello delle regioni centro settentrionali. È soprattutto tra le due guerre che il divario Nord-Sud si amplia vistosamente: imputata di questo crescente divario la politica del periodo fascista, in particolare la battaglia del grano, e poi la svolta deflazionistica e autarchica e le politiche demografiche durante la Grande depressione degli anni Trenta. I divari territoriali si riduco fortemente durante il miracolo economico, sia per effetto delle politiche di investimento, favorite dalla Cassa per il Mezzogiorno, sia ad opera della forte immigrazione interna. Negli anni Settanta il processo di convergenza si arresta: nel 2001 il distacco tra il Centro-Nord e il Sud torna sui livelli del 1961 (Brunetti-Felice-Vecchi 2011).


La produttività per addetto

Il PIL pro-capite dipende dal tasso di partecipazione della popolazione alla forza lavoro e dalla produttività del lavoro (produttività per occupato)[3]. Poiché l’occupazione può assumere forme di intensità diversa (p. es. tempo pieno o parziale), Giordano et al. [2017] calcolano l’occupazione in termini di “equivalenti a tempo pieno” (chi lavora a metà tempo, p. es., è calcolato come un mezzo equivalente). Sino al 2008, la produttività del lavoro spiega quasi tutta la crescita del PIL pro-capite.

Nei primi vent’anni dalla costituzione del Regno d’Italia, un periodo come abbiamo visto di bassa crescita, è l’industria a trascinare la crescita della produttività del lavoro. Tale ruolo guida l’industria lo perderà nel periodo giolittiano a favore dei servizi privati[4], durante la Grande Depressione e da metà degli anni Settanta a favore dell’agricoltura. I servizi privati sono in tutto il periodo il settore che frena la crescita della produttività, con un incremento significativo solo durante il periodo giolittiano (+2,2%, trainata da commercio, hotel e ristorazione) e durante il miracolo economico (+4,5%, trainata da trasporti e telecomunicazioni). I cambiamenti strutturali (spostamento della forza lavoro tra settori) contano per un circa un quinto della crescita della produttività aggregata del lavoro e sono maggiori nel periodo 1919-1993.

Nel confronto internazionale, gli Stati Uniti sono il paese leader nella produttività del lavoro sin dalla fine del XIX secolo. L’Italia è partita da un livello molto più basso, ma ha recuperato. Francia e Germania sono partite da un livello di produttività superiore a quello dell’Italia e hanno superato il Regno Unito prima dell’Italia. La Spagna ha pure iniziato ad un livello di produttività superiore a quello dell’Italia, ma è stata poi superata da questa nel secondo dopoguerra sino ai primi anni Novanta, quando la Spagna ha di nuovo superato l’Italia. Il Giappone ha un profilo di crescita della produttività del lavoro simile a quello dell’Italia, sebbene non abbia mai superato il Regno Unito.

La produttività oraria

Secondo Piketty (2017), la produttività oraria è un miglior indicatore della produttività del lavoro: essa non dipende, come la produttività per addetto, dalle ore di lavoro medie del singolo lavoratore (che possono variare in base alle preferenze e alle tradizioni del paese)[5], e rappresenta meglio lo sforzo di lavoro collettivo rappresentato dal numero di occupati per il numero di ore medie lavorate. Il grafico qui sotto riporta la ricostruzione di lungo periodo fatta da Bergeaud-Cette-Lecat (2014).

Figure 1

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Fonte: Bergeaud-Cette-Lecat (2014)

La produttività totale dei fattori produttivi

Ovviamente, la crescita del benessere economico, approssimato dal PIL pro-capite, dipende crucialmente dalla crescita del PIL. Giordano et al. [2017] decompongono la crescita del PIL, al netto della componente “abitazione”, tra contributo del lavoro, contributo dei servizi del capitale e Total Factor Productivity (TFP), generalmente utilizzata come approssimazione del progresso tecnico.[6]

Decomposition of GDP growth

(percentage changes and points)

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Fonte: Giordano et al. [2017]

I primi cinquanta anni dall’Unità d’Italia (1861-1913), e quindi la prima fase dello sviluppo economico, sono caratterizzati dall’accumulazione di capitale (contributo dei servizi del capitale), che risulta il fattore che sostiene la crescita anche durante la Grande Crisi e nel ventennio che si conclude con la fine della Prima Repubblica (1974-1993). Il progresso tecnologico (TFP) è invece il fattore trainante negli anni Venti e durante il miracolo economico.

Il salto della TFP nel primo e nel secondo dopoguerra è simile a quello di Germania e Giappone, ma tuttavia inferiore. Nella media dei centocinquant’anni considerati la crescita della TFP in Italia è inferiore a quello della Germania (Giordano et al. 2017).

Il rallentamento della crescita

La crescita del PIL reale pro-capite dalla metà degli anni 70 del secolo scorso è via via rallentata e le disparità regionali aumentate. La tendenza alla diminuzione della crescita è un fenomeno comune a tutti i maggiori paesi europei, con l’eccezione della Spagna, in cui la crescita del PIL pro-capite ha riaccelerato nel 2007-2015 (Daveri 2017). Il rallentamento della crescita del PIL pro capite in Italia è trascinata dal rallentamento della crescita della produttività del lavoro, cui si aggiunge, dal 2008 al 2013, anche una forte caduta del tasso di occupazione, che recupera parzialmente dal 2014. In particolare, la crescita della produttività oraria rallenta decisamente, almeno in confronto a quella degli altri paesi, a partire da metà degli anni 90 (vedi Figure 1).

Il gap di produttività tra imprese grandi e imprese piccole, così come tra più efficienti e inefficienti, è cresciuta nel tempo, particolarmente nei servizi, ed è più ampio in Italia che negli altri paesi europei, ad eccezione della Spagna (Giordano et al. 2017).

La produttività oraria

La produttività oraria è indipendente dal numero di ore lavoro per occupato (H/L, vedi nota 5), che secondo Piketty (2017) tende a compensare la minore produttività per occupato (PIL/L). Piketty nota come il PIL per ora lavorata è oggi massimo in USA, Francia e Germania (intorno a 55 €). In Spagna, Italia e Regno Unito è circa il 25% in meno.

La produttività oraria è uguale al PIL pro-capite per l’inverso delle ore lavorate per lavoratore (PIL/H = PIL/P * P/H). In Germania, Italia e Francia il numero di ore lavorate pro-capite (H/P) è significativamente inferiore a quello di Stati Uniti e Regno Unito. Tra i maggiori paesi europei l’Italia ha però un andamento disallineato: dopo essere stata il paese con il numero di ore di lavoro pro-capite più basso negli anni Settanta e Ottanta (economia sommersa, ristretta base occupazionale?), dalla fine degli anni Novanta fino all’inizio della crisi finanziaria (il periodo di convergenza con l’area dell’Euro), l’Italia registra un deciso aumento delle ore lavorate pro-capite. La recente crisi segna una forte inversione di tendenza.

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Fonte: Piketty (2017)

Il numero di ore lavorate pro-capite (H/P) dipende dal numero di ore lavorate per occupato (H/L) e dal tasso di partecipazione (L/P, ossia il numero di occupati pro-capite). Il numero di ore di lavoro per occupato è in Italia molto più alto che in Germania e Francia, addirittura più alto che nel Regno Unito: prima della recente crisi più alto che negli Stati Uniti!

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Fonte: Piketty (2017)

Il tasso di occupazione (L/P) è comunque in Italia sistematicamente e significantemente inferiore a quello degli altri paesi. Solo negli anni precedenti la recente crisi si verifica un evidente balzo, che poi abortisce. La Francia è più simile all’Italia, mentre la Germania è tra i paesi maggiori quello che vanta il tasso di occupazione più elevato.

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Fonte: Piketty (2017)

Il più intensivo utilizzo di pochi occupati potrebbe essere dipeso dalla minore produttività del lavoro e dalle barriere all’entrata nel mercato del lavoro.

La produttività totale dei fattori produttivi

È soprattutto il progresso tecnico che rallenta (vedi sopra): dagli novanta, la produttività totale dei fattori è calata dell’1,0%, più di qualsiasi altro grande paese; solo durante la Grande Depressione degli anni 30 era andata paggio. Come in Spagna, il calo della TFP riguarda tutti i settori, inclusi quelli in cui la TFP è aumentata negli paesi dell’area dell’Euro (Cœuré 2017).

 

TFP growth in main economic sectors, 1999 to 2007
(in percentages)

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Fonte: European Commission e Couré (2017)

Le cause del rallentamento

Sia Mrabet [2016] che Giordano et al. [2017] elencano i motivi candidati a spiegare il declino della crescita della produttività in Italia. Due candidati sono in comune:

1) La bassa concorrenza nel settore dei servizi, afflitta da una regolamentazione ancora elevata e amplificata da un più elevato impatto sul resto dell’economia, anche attraverso una maggiore differenziale di produttività tra imprese grandi e microimprese. A questo potremmo aggiungere la concorrenza sleale generata dall’economia illegale (vedi Box: L’economia illegale).

2) Il basso livello di investimenti in ITC e la conseguente bassa diffusione e utilizzo dell’ITC e più in generale il basso livello di spesa in Ricerca & Sviluppo.


Box: L’economia illegale

L’evasione fiscale e l’illegalità rappresentano un fattore di concorrenza sleale, indebolendo il meccanismo di selezione (come avvenuto nel settore dei servizi) e riducendo l’incentivo all’innovazione e alla crescita dimensionale. (Bobbio 2016). Secondo l’ISTAT l’economia illegale conta per il 7% dell’occupazione e il 6% del valore aggiunto nell’industria manifatturiera, e addirittura il 16 e il 20 percento rispettivamente nei servizi alle imprese. L’economia illegale è intimamente legata all’evasione fiscale. Secondo Bobbio (2016), l’evasione fiscale costa circa lo 0,2% di crescita del PIL all’anno. Poiché le imprese piccole, che in proporzione sono più numerose nel settore dei servizi, hanno probabilità inferiore di essere ispezionate dalla guardia di finanza rispetto alle imprese maggiori, l’evasione fiscale tende ad essere maggiore tra di esse.


Nello spiegare il minor aumento della produttività oraria da metà degli anni 90 in Italia, Piketty, che riprende Mrabet (2016), aggiunge un terzo fattore:

3) la mancanza di investimenti in istruzione: da una parte in Italia è bassa tra gli occupati la percentuale di diplomati, sono basse le competenze matematiche e linguistiche confronto agli altri paesi OECD; dall’altra l’insegnamento è poco orientato alla pratica e i giovani hanno difficoltà ad inserirsi nel modo del lavoro.

Giordano ed al., infine, aggiungono un quarto fattore:

4) Lallocazione inefficiente del capitale tra settori, particolarmente nei settori del Commercio e del Turismo, dell’informazione e delle telecomunicazioni, dei servizi professionali. Tale inefficienza in Italia, come in Spagna e Belgio, continua ad aumentare anche nel periodo successivo alla fine della crisi (Cœuré 2017). Ciò significa che il capitale non è riallocato in misura adeguata dalle imprese meno efficiente alle imprese più efficienti. L’allocazione inefficiente del lavoro non risulta invece essere significativa.

 

Capital misallocation in four euro area countries
(weighted averages of sectoral dispersion in the marginal revenue of productivity of capital, where the weights are the sectoral shares in value added)

image

Fonte: ECB staff calculations on CompNet data. Sample with 20 or more employees, Cœuré [2017]

Approfondiremo di seguito questo ultimo punto.

Allocazione inefficiente del capitale: selezione e riallocazione delle risorse

La crescita della TFP dipende da due componenti: 1) la capacità di ogni singola impresa di divenire più efficiente (within-firm); 2) la riallocazione delle risorse tra imprese eterogenee dal punto di vista della produttività. Il contributo di ciascuna componente è approssimativamente il 50%. L’allocazione inefficiente è maggiore là dove maggiore è la regolamentazione di prodotto, ma questa (che nel tempo è diminuita) non ne spiega la dinamica.

1. L’aumento dell’efficienza della singola impresa dipende da due fattori:

a. l’innovazione e la creazione tecnologica da parte delle imprese di frontiera;

b. l’assorbimento delle nuove tecnologie da parte delle imprese che non sono di frontiera. L’assorbimento di nuove tecnologie dipende soprattutto dalla concorrenza internazionale e in particolare dalla partecipazione alle cosiddette “Catene Globali del Valore”, ossia alle connessioni commerciali internazionali che concorrono alla produzione di prodotti finali offerti sui mercati globali. Nel settore dei servizi tale fattore è quasi del tutto assente.

2. L’allocazione delle risorse avviene attraverso due meccanismi: a) la selezione e b) la riallocazione.

a. Nei periodi di crisi le imprese meno efficienti sono espulse dal mercato, mentre nei periodi di crescita nuove imprese entrano sul mercato e sfidano le imprese esistenti: questo è il meccanismo della selezione, ed è fortemente influenzato dalla concorrenza e dalla regolamentazione. Il contributo della selezione dipende da due fattori:

i. il tasso di ricambio delle imprese (ingressi/uscite);

ii. la produttività relativa di entranti e uscenti rispetto alle imprese sopravviventi.

b. La riallocazione funziona invece attraverso l’espansione delle imprese più efficienti (guidata dall’innovazione e dalla domanda), che attraggono capitali e lavoro.

Il primo meccanismo (la selezione) è controciclico (maggiore durante la recessione, la “distruzione creatrice” di Shumpeter), il secondo è pro-ciclico (maggiore nei periodi di espansione). La concorrenza gioca un ruolo anche nel meccanismo della riallocazione: Linarello-Petrella [2016] mostrano che questo è maggiore nei settori più esposti alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo (come la Cina), che rappresenterebbe quindi uno stimolo all’innovazione.

Tra il 2005 e il 2013, cioè durante la “doppia crisi”, l’economia italiana ha vissuto un periodo di aggiustamento strutturale che ha comportato l’uscita delle imprese meno produttive e la parziale riallocazione del lavoro verso le imprese più produttive (Linarello-Petrella 2016). Nel settore manifatturiero il meccanismo della selezione ha rafforzato il potente effetto della riallocazione delle risorse nel compensare la caduta della produttività media delle imprese sopravviventi, determinando un aumento della produttività aggregata. Seppure positiva, la riallocazione è stata inferiore nel settore dei servizi e non sufficiente a contrastare la caduta della produttività media delle imprese sopravviventi; la selezione ha avuto un effetto netto negativo sulla produttività aggregata. Il tasso di ricambio è stato superiore nei servizi, ma i nuovi entranti nel settore manifatturiero, pur essendo più piccoli, tendono ad essere più efficienti rispetto a quelli dei servizi.

Un ruolo nell’allocazione inefficiente del capitale, potrebbero averlo anche le distorsioni del mercato del credito, il cosiddetto zobie lending: banche deboli (zombie bank), nel tentativo di evitare perdite sui propri portafogli e in cerca di maggiori profitti, tendono a fare credito alle imprese più deboli e più rischiose (zombie firm). Hassan-Di Mauro-Ottaviano (BCE 2017) stimano che l’elasticità del credito alla produttività attesa dell’impresa in Italia è bassa e inferiore a quella di Francia e Germania (cioè il credito va meno ad imprese efficienti). Adalet McGowan-Andrews-Millot (2017) mostrano che un aumento dello stock di capitale assorbito dalle imprese zombie è associato con una diminuzione della capacità delle imprese più produttive ad attrarre capitale.

Tuttavia, Schivardi-Sette-Tabellini (Luiss, 2017) stimano che durante la crisi le banche meno capitalizzate hanno sì tagliato il credito alle imprese zombie meno che le banche più forti, ma questo non è avvenuto a spese delle imprese sane (in linea con quanto dimostrato da Linarello-Petrella 2016). Il cosiddetto zombie lending, nella misura in cui c’è stato e non è andato detrimento delle imprese più efficienti, ha avuto in Italia, almeno durante la crisi, un impatto minimo sulla crescita e nel breve periodo ha avuto anzi effetti economici positivi, mitigando le esternalità di crolli della domanda.

Conclusioni

Esiste una specificità storica nella dinamica della produttività italiana. L’Italia, in termini di produttività del lavoro, una volta avviata l’industrializzazione, recupera lo svantaggio iniziale e si colloca tra i paesi più avanzati. Tuttavia, la capacità di assorbire l’innovazione tecnologica è stata inferiore a quella della Germania.

A partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso la crescita della produttività oraria rallenta decisamente. Ad essa si aggiunge anche una diminuzione delle ore lavorate per occupato. Tali fenomeni sono in parte compensati, almeno fino allo scoppio della recente doppia crisi, dall’aumento del tasso di occupazione, che rimane comunque sensibilmente inferiore a quello degli altri maggiori paesi avanzati. Il rallentamento della crescita della produttività sembra essere spiegato in gran parte dal minore assorbimento di innovazione tecnologica.

Dagli studi qui riportati emergono alcune indicazioni di policy. Prima di tutto cosa non fare: forme di protezionismo o peggio ancora il distacco da mercati sovranazionali integrati, aggraverebbero il problema. Il mercato del lavoro, che è stato probabilmente un ostacolo alla crescita sino alla metà degli anni Novanta, dopo le riforme via via susseguitisi sino al Jobs Act, non sembra oggi essere più un problema.

In termini positivi, invece, è possibile individuare quattro linee di azione:

1) rimuovere gli ostacoli alla concorrenza nel settore dei servizi,

2) ridurre l’illegalità e combattere l’evasione fiscale, sia rafforzando i controlli sia riducendo le aliquote legali (e in questo modo il disincentivo e crescere).;

3) incentivare gli investimenti in ITC;

4) riformare la scuola secondaria, potenziando l’insegnamento matematico e linguistico e l’orientamento pratico, e aumentare le spese per l’istruzione.

Le distorsioni nel mercato del credito sembrano avere una importanza minore, soprattutto dopo le recenti riforme delle banche popolari e delle banche cooperative. Miglioramenti potrebbero essere raggiunti soprattutto nel credito alle imprese piccole e dei servizi privati.

Si tratta nel complesso di indicazioni generiche e che vanno meglio specificate. Per esempio, la lotta all’evasione fiscale è un tema ricorrente nel discorso politico di alcune parti, ma sinora i risultati sono stati limitati. L’aumento della spesa per istruzione deve rispettare i vicoli finanziari e disgiunta da una vera riforma della scuola può essere uno spreco di risorse. Gli incentivi agli investimenti possono essere distorti da finalità elettoralistiche o da incompetenza della pubblica amministrazione. Infine, nessuna di queste linee di azione sembra essere decisiva di per sé né esaustiva nel complesso. Le quattro possibili spiegazioni del rallentamento della produttività su cui si basano (bassa concorrenza nel settore dei servizi, basso livello di investimenti in ITC, la mancanza di investimenti in istruzione, l’inefficienza nell’allocazione del capitale) non sembrano essere decisivi nello spiegare l’inversione dell’andamento della produttività proprio a partire dalla metà degli anni 90.

Riferimenti

Adalet McGowan, Müge – Andrews, Dan – Millot, Valentine, “The Walking Dead? Zombie Firms and Productivity Performance in OECD Countries”, OECD Economics Department Working Papers, No. 1372, January 2017.

Bergeaud, Antonin, Gilbert Cette and Remy Lecat: “Productivity trends from 1890 to 2012 in advanced countries”, Working papers N° 475, Banque de France, Forthcoming in the Review of Income and Wealth, (2014)

Bobbio, Emanuele, “Tax Evasion, Firm Dynamics and Growth”, Banca d’Italia, Agosto 2016.

Brunetti, Alessandro – Felice, Emanuele – Vecchi, Giovanni, “Reddito”, in Vecchi [2011]

Cœuré, Benoit, “Convergence matters for monetary policy”, speech at the Competitiveness Research Network (CompNet) conference on “Innovation, firm size, productivity and imbalances in the age of de-globalization”, Brussels, 30 June 2017 (https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2017/html/ecb.sp170630_1.en.html).

Daveri, Francesco, “Declining Productivity in Italy and Europe: facts and Explanations”, in Banca d’Italia, Riccardo Faini Memorial Conference: “Italy’s lost productivity and how to get it back”, January 2017 (https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/altri-atti-convegni/2017-riccardo-faini-memorial/Daveri_Riccardo_Riccardo_Faini_Memorial_Conference.pdf).

Gamberoni, Elisa – Giordano, Claire – Lopez-Garcia, Paloma, “Capital and labour (mis)allocation in the euro area: some stylized facts and determinants”, ECB Working Paper Series, no 1981, November 2016 (https://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/scpwps/ecbwp1981.en.pdf).

Giordano, Claire – Toniolo, Gianni – Zollino, Francesco, “Long-run Trends in Italian Productivity”, Riccardo Faini Memorial Conference: “Italy’s lost productivity and how to get it back” , Banca d’Italia, January 2017 (https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/altri-atti-convegni/2017-riccardo-faini-memorial/Giordano_Toniolo-Zollino-Riccardo-Faini-Memorial-Conference.pdf).

Hassan, Fadi – di Mauro, Filippo – Ottaviano, Gianmarco I.P., “Banks Credit and productivity growth”, ECB Working Paper, no. 2008, February 2017.

Linarello, Andrea – Petrella, Andrea, “Productivity and Reallocation: evidence from the Universe of Italian Firms”, Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza, Settembre 2016 (https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2016-0353/index.html?com.dotmarketing.htmlpage.language=1).

Mrabet, Hela, “Comment expliquer la faiblesse de la productivité en Italie?”, Trésor-Eco, n. 170, mai 2016 (http://www.tresor.economie.gouv.fr/File/424157).

Piketty, Thomas, Of Productivity in France and Germany, January 2017 (http://piketty.blog.lemonde.fr/2017/01/09/of-productivity-in-france-and-in-germany/).

Schivardi, Fabiano – Sette, Enrico – Tabellini, Guido, “Credit Misallocation During the European Financial Crisis”, LUISS Working Paper, n.3, 2017 (http://sep.luiss.it/sites/sep.luiss.it/files/SEP%200317%20Schivardi%20et%20al.pdf).

Vecchi, Giovanni, In ricchezza e in povertà, Il Mulino, 2011.


[1] Il PIL è la stima della somma del valore aggiunto delle imprese, la differenza tra ricavi e costi degli input (ossia la somma dì salari e profitti); per l’amministrazione pubblica il valore aggiunto è pari ai salari dei dipendenti pubblici. Molte sono le critiche, anche recenti, alla capacità del PIL di misurare il benessere economico. Tuttavia, il PIL ha un enorme vantaggio: è stimato da molti anni e in tutti i paesi del mondo.

[2] Il reddito reale pro-capite è uguale a PIL/P, dove P sta per la popolazione.

[3] PIL/P = PIL/L * L/P, dove L sono il numero di occupati e PIL/L indica la produttività del lavoro e L/P il tasso di occupazione.

[4] All’interno dei servizi privati “commercio, hotel e ristorazione” sono il settore più importante, “trasporti e comunicazioni” il secondo, mentre “credito e assicurazioni”, pur cresciuti enormemente nel tempo, pesano meno del 4,5% degli occupati “equivalenti” nel 2015.

[5] PIL/P = PIL/H * H/L * L/P, dove H è il monte ore lavorato, PIL/H indica la produttività oraria, H/L indica le ore di lavoro medie per lavoratore. Si noti che la produttività per addetto equivalente calcolata da Giordano et al. è sostanzialmente simile.

[6] TFP = PIL/ (Kα * L1-α), dove K è il capitale e α l’elasticità del PIL al capitale. Tale indicatore è dunque derivato da stime che si basano su assunzioni “forti”, quali la stima del valore del capitale (non disponibile nelle statistiche nazionali), la specifica funzione di produzione (il denominatore) adottata, la Cobb-Douglas, che presuppone rendimenti di scala costanti, e rendimenti di scala unitari (la somma delle elasticità del PIL a capitale e lavoro è uguale a 1). La TFP è quindi un indicatore di produttività meno preciso e affidabile degli altri indicatori, soprattutto in una dimensione storica.

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7 pensieri su “Reddito e produttività in Italia: prospettiva storica e rallentamento

  1. Riccardo in ha detto:

    Ciao Sergio,

    Molte grazie. Le tue indicazioni di policy sono in effetti quei filoni tematici a cui molti pensiamo che se affrontati l’Italia perderebbe lo stigma di ‘malato d’Europa’…
    Peraltro in gran parte di quei ‘capitoli’ di intervento si riconduce anche un recente paper di Zingales “These last findings suggest that a tentative policy prescription is for Italy, to remove those institutional barriers (such as corruption, judicial inefficiency and government interference in the financial sector) that stifle merit and contribute to cronyism”. http://voxeu.org/article/diagnosing-italian-disease

    Auguro che questo tuo lavoro possa avere una larga eco in quanto penso che:
    1. Ad oggi il tema della correlazione tra crescita produttività e crescita economica del paese sembra totalmente ignorato dal dibattito pubblico-politico;
    2. Non mi risultatno documenti pubblici (i.e. Ministero economia, Presidenza del Consiglio) in cui viene in qualche modo affrontato questo punto nonché ipotetiche soluzioni.

    Aggiungo un mio personale convincimento che non so quanto sia considerato nella misura della produttività pro-capite: la Pubblica amministrazione. Per me dovrebbe essere il tema numero 1 nell’agenda di un qualsiasi governo che intenda riformare una volta per tutte questo paese e riportarlo su un sentiero di ‘normalità’.

    Sulla illegalità un altro commento affinché non si dimentichi che il tema è bruciante sulla pelle viva di un paese prima ancora delle statistiche e dei numeri. Si veda Ostia e tante altre ampie aree dell’Italia dove è venuta meno la sovranità dello Stato e il tumore è di natura sociale e non più solo di ordine pubblico e di economia in nero.

    Riccardo

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    • Produttività – Una risposta

      Colgo l’occasione di questa, che più che una risposta ai commenti è un ringraziamento e una precisazione, per aggiornare i riferimenti. Pochi giorni dopo il mio post è stato pubblicato infatti il paper di Giordano-Toniolo-Zollino (2017) su cui si basa gran parte della mia prospettiva storica. Tale paper permette di approfondire alcune questioni poste da Lorenzo Pecchi. La figura 5 a pagina 12, infatti, presenta l’andamento storico della produttività per occupato “equivalente a tempo pieno” all’interno dei macrosettori. Da esso emerge come il rallentamento della produttività da metà degli anni Novanta sia trascinato dal settore delle costruzioni, dalle utilities (acqua, energia ecc.), e dal settore trasporti e telecomunicazioni (credito e assicurazioni sono invece un peso per l’economia solo nel periodo 1974-1993, e da allora registrano variazioni di produttività sempre positivi).
      Ringrazio poi Claire Giordano, per avermi segnalato un suo paper con Giugliano (Giordano-Giugliano 2012) che analizza il boom della produttività negli anni Venti. È il periodo della storia d’Italia in termini di crescita della produttività secondo solo al cosiddetto Periodo aureo (1951-1973), ed è anche il periodo in cui si instaura la dittatura fascista. Se la politica fascista degli anni Trenta, protezionistica e statalista, è ritenuta la responsabile dell’allargamento del divario Nord-Sud, la politica liberale dei primi anni della dittatura non ostacola, e anzi favorisce, la diffusione dell’innovazione tecnologica.

      Ampio e documentato il paper di Calligaris et al. (2016) suggerito da Francesco. Esso chiarisce che il problema dell’inefficiente allocazione delle risorse riguarda soprattutto le grandi imprese e le imprese manifatturiere del Nordovest e le imprese non-manifatturiere del Centro. Inoltre, il paper mette in luce il ruolo negativo che la Cassa Integrazione Guadagni ha sulla produttività. Importanti quindi le implicazioni di policy, che permettono di specificare alcune delle mie conclusioni: 1) il tema della grande industria del Nordovest, in cui sembra essere elevata l’inefficienza allocativa; 2) la necessità di riformare il sistema di sostegno alla disoccupazione, slegandolo dal mantenimento del posto di lavoro; 3) l’importanza degli asset intangibili (Ricerca & Sviluppo, marketing, branding ecc.) oltre che degli investimenti in ITC.
      Il paper di Calligaris et al. (2016), rimanda ad un paper (Giordano R. et al. 2015) che permette di approfondire il team posto da Riccardo del ruolo della pubblica amministrazione. La varianza regionale nell’efficienza della PA ha un ruolo rilevante nello spiegare differenze nei livelli di produttività, tenendo conto della diversa dipendenza dei settori dai servizi della PA. Tuttavia, la relazione di causalità è assai problematica da identificare. Alcuni servizi (istruzione e amministrazione della giustizia) sono in gran parte determinati a livello nazionale. Inoltre, la sistematica minore efficienza delle regioni meridionali richiama più un tema di qualità delle istituzioni nazionali (decentramento, relazione tra governo nazionale e governo locale, ecc.). Nel referendum del 4 dicembre 2016 si è deciso di mantenere l’assetto istituzionale esistente, per cui temo che piuttosto che sulla qualità delle istituzioni in generale (un tema sollevato anche dalla BCE, vedi Courè citato nel mio post), dovremmo ora concentrarci su aspetti specifici del funzionamento della PA. Nel mio post, sulla base dei lavori citati, io ne identifico due: 1) ripristino della legalità; 2) istruzione secondaria. Calligaris et al. (2016) fanno riferimento alle procedure di liquidazione, oggetto per altro di una recente riforma ancora da applicare. Un approccio alternativo, più ambizioso (seppure non così ambizioso come la riforma istituzionale), sarebbe quello di una vera riforma della PA che, coinvolgendo i responsabili delle amministrazioni, punti a coniugare una vera spending review alla ristrutturazione bottom-up della PA (vedi la proposta Giardino dei Semplici).
      Il paper di Calligaris et al. (2016) chiarisce molto bene, secondo me, come specializzazione settoriale e dimensione d’impresa, richiamate da Lorenzo, siano delle variabili endogene e quindi non rilevanti per spiegare la bassa dinamica della produttività. Il problema non è quello di spostare risorse da alcuni settori ad altri o diverso imprese di piccole dimensioni per farle diventare grandi, quanto piuttosto di facilitare il trasferimento di risorse dalle imprese meno efficienti a quelle più efficienti, qualsiasi sia il loro settore o la loro dimensione.
      Oltre a cosa fare è molto importante anche mettere punti fermi su cosa non fare. Dio ci scampi da populo-protezionisti e da neo-statalisti.

      Riferimenti
      Calligaris, Sara – Del Gatto, Massimo – Hassan, Fadi – Ottaviano, Gianmarco I.P. -Schivardi, Fabiano, “Italy’s Productivity Conondrum. A Study on resource Missallocation in Italy”, European Commission, Discussion Paper, no.30, May 2016.

      Giordano, Claire – Giugliano, Ferdinando, “A Tale of Two Fascism. Labour Productivity Growth and Competition Policy in Italy, 1911-1951”, Banca d’Italia, Quaderni di Storia Economica n. 28, dicembre 2012.

      Giordano, Claire – Toniolo, Gianni – Zollino, Francesco, “Long Run Trends in Italian Productivity”, Banca d’Italia, Occasional Papers no. 406, November 2017 (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2017-0406/index.html).

      Giordano, Raffaella – Lanau, Sergi – Tommasino, Pietro – Topalova, Petia, “Does Public Sector Inefficiency Constrain Firm Productivity: Evidence from Italian Provincies”, IMF Working Paper no.15/168, July 2015.

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  2. Francesco in ha detto:

    Caro Sergio,
    Grazie per questo articolo veramente interessante. In Italia il dibattito sul problema fondamentale della bassa produttivita’ e’ praticamente inesistente a livello politico e di opinione pubblica e spero che questo articolo possa riaccendere la luce su questi temi.

    Mi permetto inoltre di segnalarti un paio di papers che mi sono passati tra le mani recentemente. Il primo di Calligaris et al. 2016 (https://ec.europa.eu/info/publications/economy-finance/italys-productivity-conundrum-study-resource-misallocation-italy_en) che ho trovato molto interessante, specialmente per il tuo punto 4) per la misallocation of resources. Poi mi e’ piaciuto molto anche A. Tiffin (2014), “European Productivity, Innovation and Competitiveness: The Case of Italy” (https://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2014/wp1479.pdf), che offre una visione un po’ piu’ ottimista. Anchre se va un po’ al di la’ del focus del tuo articolo, Tiffin prova a spiegare come l’Italia nonostante la bassa produttività non è poi così spacciata in tema di competitività delle imprese, se si prendono altre misure tipo PPI. Comunque, ancora complimenti per aver “centrato il tema”!

    Un abbraccio,
    Francesco

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  3. Lorenzo Pecchi in ha detto:

    Caro Sergio

    Grazie per l’interessante articolo. Un aspetto che mi sembra manchi nella tua analisi è che l’Italia mostra significative differenze nella crescita della produttività tra i vari settori dell’economia anche se ne accenni brevemente nel punto dove parli della bassa concorrenza nel settore dei servizi.

    Il problema della bassa produttività è concentrata nel settore dei servizi e in generale nelle micro imprese. L’altro aspetto è che l’Italia in confronto agli altri paesi europei, a parte Spagna e Portogallo che presentano caratteristiche simile, ha una concentrazione particolarmente elevata nelle microimprese (45% del totale rispetto al 29% della Francia e al 19% della Germania). I dati sono di un recente studio di Prometeia.

    Sempre nello stesso studio si evidenzia che la produttività nelle grandi imprese è circa tre volte più alta di quella delle micro-imprese e più o meno in linea con quella dei maggiori paesi europei compresi Francia e Germania. E’ pertanto la bassa produttività di queste micro-imprese, sia nel settore dei servizi che nella manifattura, che spinge verso il basso la produttività totale del paese.

    Il nanismo sembra essere quindi al centro della questione. Problemi legati alla regolamentazione del mercato del lavoro (vedi art.18 che incentivava le imprese a non superare i 15 occupati), come problemi legati alla difficoltà di reperire capitale di rischio possono essere tra le cause dell’incapacità delle imprese di crescere e raggiungere una grandezza ottimale e perciò limitare la crescita della produttività.

    Ciao

    Lorenzo

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    • Produttività – Una risposta

      Colgo l’occasione di questa, che più che una risposta ai commenti è un ringraziamento e una precisazione, per aggiornare i riferimenti. Pochi giorni dopo il mio post è stato pubblicato infatti il paper di Giordano-Toniolo-Zollino (2017) su cui si basa gran parte della mia prospettiva storica. Tale paper permette di approfondire alcune questioni poste da Lorenzo Pecchi. La figura 5 a pagina 12, infatti, presenta l’andamento storico della produttività per occupato “equivalente a tempo pieno” all’interno dei macrosettori. Da esso emerge come il rallentamento della produttività da metà degli anni Novanta sia trascinato dal settore delle costruzioni, dalle utilities (acqua, energia ecc.), e dal settore trasporti e telecomunicazioni (credito e assicurazioni sono invece un peso per l’economia solo nel periodo 1974-1993, e da allora registrano variazioni di produttività sempre positivi).
      Ringrazio poi Claire Giordano, per avermi segnalato un suo paper con Giugliano (Giordano-Giugliano 2012) che analizza il boom della produttività negli anni Venti. È il periodo della storia d’Italia in termini di crescita della produttività secondo solo al cosiddetto Periodo aureo (1951-1973), ed è anche il periodo in cui si instaura la dittatura fascista. Se la politica fascista degli anni Trenta, protezionistica e statalista, è ritenuta la responsabile dell’allargamento del divario Nord-Sud, la politica liberale dei primi anni della dittatura non ostacola, e anzi favorisce, la diffusione dell’innovazione tecnologica.
      Ampio e documentato il paper di Calligaris et al. (2016) suggerito da Francesco. Esso chiarisce che il problema dell’inefficiente allocazione delle risorse riguarda soprattutto le grandi imprese e le imprese manifatturiere del Nordovest e le imprese non-manifatturiere del Centro. Inoltre, il paper mette in luce il ruolo negativo che la Cassa Integrazione Guadagni ha sulla produttività. Importanti quindi le implicazioni di policy, che permettono di specificare alcune delle mie conclusioni: 1) il tema della grande industria del Nordovest, in cui sembra essere elevata l’inefficienza allocativa; 2) la necessità di riformare il sistema di sostegno alla disoccupazione, slegandolo dal mantenimento del posto di lavoro; 3) l’importanza degli asset intangibili (Ricerca & Sviluppo, marketing, branding ecc.) oltre che degli investimenti in ITC.
      Il paper di Calligaris et al. (2016), rimanda ad un paper (Giordano R. et al. 2015) che permette di approfondire il team posto da Riccardo del ruolo della pubblica amministrazione. La varianza regionale nell’efficienza della PA ha un ruolo rilevante nello spiegare differenze nei livelli di produttività, tenendo conto della diversa dipendenza dei settori dai servizi della PA. Tuttavia, la relazione di causalità è assai problematica da identificare. Alcuni servizi (istruzione e amministrazione della giustizia) sono in gran parte determinati a livello nazionale. Inoltre, la sistematica minore efficienza delle regioni meridionali richiama più un tema di qualità delle istituzioni nazionali (decentramento, relazione tra governo nazionale e governo locale, ecc.). Nel referendum del 4 dicembre 2016 si è deciso di mantenere l’assetto istituzionale esistente, per cui temo che piuttosto che sulla qualità delle istituzioni in generale (un tema sollevato anche dalla BCE, vedi Courè citato nel mio post), dovremmo ora concentrarci su aspetti specifici del funzionamento della PA. Nel mio post, sulla base dei lavori citati, io ne identifico due: 1) ripristino della legalità; 2) istruzione secondaria. Calligaris et al. (2016) fanno riferimento alle procedure di liquidazione, oggetto per altro di una recente riforma ancora da applicare. Un approccio alternativo, più ambizioso (seppure non così ambizioso come la riforma istituzionale), sarebbe quello di una vera riforma della PA che, coinvolgendo i responsabili delle amministrazioni, punti a coniugare una vera spending review alla ristrutturazione bottom-up della PA (vedi la proposta Giardino dei Semplici).
      Il paper di Calligaris et al. (2016) chiarisce molto bene, secondo me, come specializzazione settoriale e dimensione d’impresa, richiamate da Lorenzo, siano delle variabili endogene e quindi non rilevanti per spiegare la bassa dinamica della produttività. Il problema non è quello di spostare risorse da alcuni settori ad altri o diverso imprese di piccole dimensioni per farle diventare grandi, quanto piuttosto di facilitare il trasferimento di risorse dalle imprese meno efficienti a quelle più efficienti, qualsiasi sia il loro settore o la loro dimensione.
      Oltre a cosa fare è molto importante anche mettere punti fermi su cosa non fare. Dio ci scampi da populo-protezionisti e da neo-statalisti.

      Riferimenti
      Calligaris, Sara – Del Gatto, Massimo – Hassan, Fadi – Ottaviano, Gianmarco I.P. -Schivardi, Fabiano, “Italy’s Productivity Conondrum. A Study on resource Missallocation in Italy”, European Commission, Discussion Paper, no.30, May 2016.
      Giordano, Claire – Giugliano, Ferdinando, “A Tale of Two Fascism. Labour Productivity Growth and Competition Policy in Italy, 1911-1951”, Banca d’Italia, Quaderni di Storia Economica n. 28, dicembre 2012.
      Giordano, Claire – Toniolo, Gianni – Zollino, Francesco, “Long Run Trends in Italian Productivity”, Banca d’Italia, Occasional Papers no. 406, November 2017 (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2017-0406/index.html).
      Giordano, Raffaella – Lanau, Sergi – Tommasino, Pietro – Topalova, Petia, “Does Public Sector Inefficiency Constrain Firm Productivity: Evidence from Italian Provincies”, IMF Working Paper no.15/168, July 2015.

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